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Visualizzazione dei post da ottobre, 2017

IL GENIO NELLA BOTTIGLIA

Le emanazioni di un senso profondo, fine, avevano assunto nei millenni nomi e vesti rituali. Gli antropologi, acerbi, ne avevano parlato spesso. Quelle emanazioni, cristallizzate nei logos, nelle culture, si volevano più o meno innate, a seconda. Sedicenti grandi maestri, avevano offerto e offrivano maschere parziali d’ombra, benevole o incuranti, anche qui… a seconda. Le emanazioni, comunque, erano grandi case rassicuranti. La mia, per lungo tempo, fu la vendetta. Virtualità o atto che ristabilisce un equilibrio. L’equilibrio stesso fu casa d’altri. E l’onestà, il paradiso, il giudizio, la legge degli uomini o di Dio, furono casa d’altri ancora. Tutte galere. Quando il volo assume un nome, smetti di sentire la voce del mondo in favore di quel solo nome. L’atto, l’evento, si esorcizza, si ritualizza. Diventa rappresentazione e obbligo. O percorso obbligato. Ed eccoti: sei il genio prigioniero della bottiglia.

(TU) - INTRO

Fuori dall’ordine economico consueto, risultavamo impensabili, e dunque imprendibili. Eravamo lì, in carne ed ossa, ma non ci vedevano. Quelli guardavano invece tele tessute dai loro discorsi, immagini rese evidenti da complessi e minuziosi sistemi di illuminazione. Noi scomparivamo nello sfondo. Colpimmo, dall’alto calando, come i jaguncos del Sertao colpivano attraversando deserti che si davano per non attraversabili. Ci proteggeva il pensiero degli altri, i loro impossibili . Per rubare, rubavamo. Il valore di ciò che prendevamo, però, quelli, non sapevano calcolarlo. E compravamo, anche. Alle volte. Era uno scudo. Esseri invisibili, eppure solidi, planando , sentivamo le correnti che ci spingevano. L’Uno ci legava ai derubati. Si tendeva ad un pareggio di bilancio, avrebbe detto il ragioniere. Il libro mastro era invisibile quanto noi. Se ti sforzavi per renderlo intelligibile, ti ritrovavi immerso nei “come”, lontano dai “perché”, smarrito. E allora parlavi, facevi discor

TUTTO INTORNO

Tutto intorno, l’universo, girava immenso e vertiginoso. Un abisso. Lo dimenticavo pettinando fronde di olivastro, con le mani. Le piccole olive cadevano nello zaino. Da quell’alto su cui stavo riuscivo a ridere con l’albero. La risata di un grande albero è l’oscillare del ciclope. Nella sua mano gigantesca senti scuotersi il ventre della terra e con esso il tuo. È un solletico profondo. Rinfrancante. Mio figlio, con un cappellino calato sugli occhi, in braccio a mia moglie, sembrava ancora piu’ piccolo e indifeso. Mi coglieva una tenerezza, allo stato primordiale. Lo guardavo e intorno l’universo si faceva ancora più minaccioso. Era lo specchio della mia inadeguatezza. Ma a guardare dietro quello specchio, c’era solo il brivido della vita, la nuda vita, quando scorre e sfugge. Volare non conosce futuro, mente chi ne dice sia un verbo soggetto a coniugazioni distese sul tempo. Dare nomi alle stelle e ai pianeti su nel cielo, era un modo di cadere nell’inganno.

VERITA' - 1

L’Inferno, ragionavo, doveva essere qualcosa di molto simile a questo: un gran cicaleccio, un gran frastuono. Per produrlo, bastava dare ad ogni singola particella una capacità sonora, la possibilità di generare un minuscolo rumore. Nell’insieme, irraggiungibile per la sintesi, indomabile, doveva apparire come un agghiacciante confusione, una immensità insensata dove ogni voce si perdeva. Ma, al contrario, doveva anche essere una volontà percettiva, una intenzione nell’ascoltatore, ossia il desiderio altrettanto insensato di porre un ordine al caos. Ecco: doveva essere, l’Inferno, l’ottusa caparbietà, la pretesa, di trovare un ordine alla moltitudine. Infatti, il suono, non bastava produrlo. Serviva anche ascoltarlo, riceverlo. In definitiva, dunque, l’Inferno doveva essere non solo un gran cicaleccio, ma anche e soprattutto prestare orecchio con intenzione. Saggio è colui che si accontenta dello spettacolo del mondo, scriveva un secolo fa Pessoa. Il Paradiso, allora, era considerare i

VERITA' - INTRO

La cosa che trovavo esilarante, era la pretesa che avevamo di pensarci intelligenti, di avere ragione, mentre il mondo che andavamo costruendo era un mondo ansioso, fobico, autodistruttivo. Infelici, ci arrabattavamo appresso a principi senza fondamento trascendente, edificando discorsi fondati sul nulla. E invece di ammirare la moltitudine beati, lottavamo e digrignavamo i denti, mostravamo maschere tiepide e feroci, pretendevamo di dire noi stessi il vero. Quello che trovavo davvero esilarante, era la nostra pretesa di verità.