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SKIZO

Avevo parlato per l’ultima volta con mio padre all’età di 12 anni. Camminavamo per il viale della Pineta, a Pescara. Pescara era la sua città, non la mia. Io ero nato e cresciuto in un paese del sud Italia, paese nel quale egli visse una sorta di esilio  determinato dal posto di lavoro. Quella volta in cui parlammo e sembrò l’ultima, e lo fu in effetti per lunghissimi anni, mio padre era tornato a vivere in Abruzzo da poco tempo, e noi con lui. Non nostro malgrado, quanto piuttosto in piena fiducia e nella naturalezza degli eventi. Noi eravamo io, mia madre e mia sorella. Doveva essere autunno, un autunno mite, io e mio padre camminavamo ognuno su una strada diversa. La sua era parto della memoria, egli non vedeva bene cosa c’era di nuovo rispetto agli anni sessanta. La mia era attuale, di una attualità senza magia che atterriva. Fu, quello, un periodo molto positivo della vita di mio padre. Dopo quindici anni di turni in acciaieria in qualità di operaio, aveva ottenuto un posto da responsabile di magazzino in una grossa azienda a Pescara. Si era ricongiunto con la sua famiglia, aveva ritrovato i vecchi amici, io e mia sorella sembravamo sani e diligenti, mia madre era felice e non piu’ sola al paese del sud, insomma: tutto gli sembrava andasse bene. Ma c’era di piu’. C’era una sorta di rivalsa nella piega che la sua vita andava prendendo. Lui, adesso, si sentiva degno. La scala sulla quale si misurava, non era ne’ mai sarebbe stata la mia scala. Mio padre fu sempre degno, ai miei occhi. Degno d’essere uomo e padre a prescindere o a dispetto delle possibilità che ci concedeva sacrificandosi. E fui sempre indifferente al titolo il mondo gli assegnava. Io e mio padre, già allora, cercavamo scale diverse di misurazione. I figli, forse, nel mondo di mio padre, erano un campo di verificazione. Uno sceglie una strada o ne è scelto, si comporta come crede o riesce, e il mondo lo premia o lo bastona. Quello che sembra un successo, o ben fatto, poi, lo si verifica attraverso i figli. Ma di tutto questo io non ragionavo, all’epoca, e tutt’oggi mi interessa solo se ripenso a mio padre. Quel giorno d’autunno, sul viale della Pineta, comunque, le strade già diverse che io e mio padre percorrevamo si divisero. Gli chiesi qualcosa, qualcosa che mi riguardava intimamente. Gli chiesi dove c’era e se c’era uno spazio, uno spazio bianco, un luogo non già determinato dove nessuna scala pre-esistente impone misurazioni. Un posto dove esistere in forme non già note. Mio padre era un uomo intelligente, capì bene la domanda. Ma forzò la risposta. Arrivò fino ad un certo punto, e poi preferì considerarmi un bambino che sogna. Io ero un bambino che sogna, in effetti. Ma non ero solo questo. Ero nuda vita, e lo era necessariamente anche lui. Per questo dico che forzò la risposta. Non trovò insensato quanto chiedevo, lo trovò pericoloso. Elencai tutto quello che lui metteva tra i vantaggi che la nostra condizione ci arrecava, e seppure a me non fregava nulla di tutto l’armamentario fatto di casa, cortile, studio, stipendi, vacanze, sport e correlati, citai tutta la paccottiglia mettendola tra gli utili in un libro mastro dove invece la tenevo in conto come perdita e perdita grave. Posi solo un quesito alla fine, e il quesito era: sì, ma se a dispetto di quanto tutto ciò sia indiscutibilmente ricchezza, uno non vuole quella ricchezza? Mio padre, come ho detto, forzò la risposta. Non so se per lui, a quel punto, era impossibile volere altro che la cima o comunque un posto di privilegio nel sistema, un progresso sociale, un avanzamento di status per la sua discendenza all’interno di quel sistema. Non so se fu per repressione o per aspirazione che mio padre mi zittì, tagliò corto, come se stessi ancora giocando coi soldatini mentre era giunta l’ora di andare a scuola. Di fatto, da quel momento in poi, cominciai a considerarlo un nemico, come consideravo il resto dell’umanità. Certo, un nemico amato, poiché se tutti sono nemici, ci saranno comunque nemici che si amano. L’amore, da qualche parte, deve pure andare. Ma parlai nuovamente con mio padre solo 32 anni più tardi. Non che nel frattempo non avessimo scambiato parole, ma furono sempre parole vuote, funzionali al discorso sempre più scalcinato che lui tesseva ma che io padroneggiavo. Se la scuola è prima di tutto un luogo di potere, io fui liquido che scorre tra le maglie, ma allo stesso tempo padrone delle tecniche. La schizofrenia è la norma. Almeno per la mia generazione. E alla fine fu in un cortile che ricordava il cortile delle galere, dove i detenuti prendono la loro ora d’aria, che io e mio padre parlammo ancora. Mio figlio, due mesi appena, in braccio a me o a sua madre, guardava il quadrato di cielo sopra di noi stretti tra pareti di cemento e divorati dalle zanzare.
Loro, i miei genitori, erano scesi in Sicilia per conoscere il nipote neonato. Per l’occasione, visto che il villaggio dove vivevo era un luogo bianco in cui si esiste attraverso forme non predefinite, ossia: visto che era un luogo impervio di montagna al quale i miei genitori non erano preparati, affittammo un villino a mare per stare insieme una settimana. Il villino era una costruzione sicuramente abusiva che sorgeva tra altre identiche e identicamente abusive, una casa di tre stanze con bagno e cucina piu’ una dependance separata da un cortile, con tanto di giardinetto e mura di cemento a rinchiuderci. La galera di cui sopra.  Quel villino era una casa vacanze che rendeva alla proprietaria solo in virtù del sistema industriale. Fuori da quel sistema, non valeva una lira. Era un posto ameno, maleodorante circondato dalla spazzatura, dove nulla funzionava. Come diceva il mio amico Ivan, il sistema industriale è basato sulla scarsità del prodotto. Un concetto semplice che non riuscivo a far capire a Domenico, poiché quando una persona sente “scarso” pensa ad un deficit quantitativo, ed è ben noto come la società del benessere sia invece fondata sull’abbondanza del prodotto. Solo che Ivan faceva notare come quello stesso prodotto, distribuito capillarmente, è inaccessibile e inutilizzabile se non attraverso una serie di operazioni e di impegni che lui chiamava lavoro ombra. Ossia il prodotto industriale era scarso della scarsità di un terzino, o di un attaccante. Scarso in attacco, nel calcio, non vuol dire che hai pochi attaccanti, vuol dire che quelli che hai non servono a un cazzo. Ma questa è un’altra storia. Nella storia che sto raccontando adesso, invece, ci trovavamo in quel villino casa vacanza, roba per turisti, li’ dove noi non eravamo turisti, quanto piuttosto una famiglia che si ricongiunge.
Oltre ai genitori, erano scesi in Sicilia per conoscere mio figlio anche mia sorella, suo marito e i loro due figli. I figli di mia sorella avevano all’epoca 8 e 5 anni. Passarono tutto il tempo ad accarezzare il nuovo cugino. In particolare Lorenzo, il mio nipotino di 8 anni, era incontenibilmente felice. Loro sei abitarono, durante quella settimana, il corpo del villino con tre stanze. Io mia moglie e il bimbo, invece, ci sistemammo nella dependance. Come detto, ci si incontrava in cortile. Sembrava proprio una galera.
Quella fu la prima volta in cui mia madre sali’ su un aereo. Mio padre, invece, usci’ dalla sua città dopo forse dieci anni. Mio padre era malato. Mia madre aveva paura. Non della Sicilia, quanto piuttosto della notte. A sera, li rinchiudeva tutti nella casa dove soffocavano di caldo. Quando all’alba io tentavo una sortita in cucina, trovavo la porta sbarrata. E quando mi apriva, subito richiudeva a chiave dietro le mie spalle. Mi ricordava il mio vecchio amico Christian, che dopo il terremoto de L’Aquila aveva passato un mese a dormire le notti fuori casa, sotto gli ulivi, per poi dormire anche il giorno sul divano di casa. Cosi’ mia madre teneva chiuso solo di notte. Gli assassini di mia madre erano nottambuli, evidentemente. Come il terremoto di Christian. Christian aveva varie certificazioni che ne attestavano la personalità bipolare.
Quella sistemazione ce l’aveva trovata Gino, un altro amico che io consideravo divertente. Comico, per dirla meglio. La cosa che trovavo piu’ divertente di Gino era la sua assurda pretesa di dividere le persone in truci malfattori e virtuosi. E in tutto ciò il fatto che egli si ponesse tra i virtuosi. Ecco: questa cosa la trovavo davvero comica.  Ma è ancora un’altra storia.
Fu così, dunque, dopo 32 anni, in cortile, seduti alle sedie, che io e mio padre parlammo di nuovo. Mio padre, come ho detto, era una persona intelligente. A quel punto ci vedeva male e da un occhio solo, non sentiva bene gli odori, aveva un udito un po’ fiacco, e malgrado tutto ciò non poteva non vedere l’accumulo di spazzatura e di stronzi dal quale eravamo sommersi, sentire il puzzo dei gas di scarico e delle fogne o i rumori dei motori che spaccavano l’aria. Le forme antropizzate, opprimenti. Mio padre, nel suo libro mastro, se poteva mettere in conto guadagno alcuni fatti, a cominciare da mio figlio che portava il suo nome, doveva per lo stesso motivo mettere sotto la colonna delle perdite un’altra serie di eventi. Quello che Gino non capiva, e con lui tanti altri, mio padre lo capiva benissimo. E se all’epoca di quella passeggiata lungo il viale della pineta aveva potuto scommettere contro l’intelligenza a favore del sistema di cui partecipava, e, per paura, contro la mia ribellione, ora, sui resti della dignità, non poteva incensare questa barbarie che obbliga e pialla e ammala e umilia e deprime. Il sistema era stupido, fatto da stupidi, prodotto di stupidità. E mio padre lo sapeva. Ed entrambi sapevamo, anche io finalmente e per esperienza diretta, che la stupidità è inspiegabile e inevitabile. E riguarda tutti. Come alla fine di una battaglia due nemici si guardano esausti, al di la del sangue versato, cosi’ io e mio padre parlammo. Parlammo in nome di mio figlio.
Parlammo della sua epoca e della mia. Di quella che all’intersezione fu la nostra.
Parlammo di logos e disciplina, parlammo di Foucault e Illich. Parlammo di società disciplinare e industrializzazione. Ricordo che misurando bene le parole, gli dissi che avevo combattuto una guerra totale contro le forme che mi si volevano imporre. Il parziale risultato eravamo io, la mia compagna e mio figlio, tutti e tre viventi nel selvaggio. Mio padre ebbe di nuovo voglia di avere coraggio.
Mia sorella, come mia madre, coltivava le sue fobie. Io e mio padre parlammo anche di loro, con tenerezza. Le persone rifiutano il fatto che fuori da un appartamento, fuori da quella galera, fuori dal posto riservato, fuori dal bombardamento mediatico, dal giudizio, dall'etica e dalle scale di valore, esse esistono ancora come mostri.
Nella teoria del Bloom, c’è scritto che viviamo guardandoci da fuori. Il Bloom pensa a se stesso come ad un altro. E’ il mostro immemore che guarda la sua maschera. Esistono forme di pensiero che somigliano a film, a interviste, a interrogatori. È la paura che fa questo lavoro, quando invade un tempo che non le compete. Un animale non ha sempre paura. L’uomo si’. Io, nel mio villaggio di macerie, cadevo spesso in me stesso e agivo senza riflettermi nello specchio. Vivevo lunghi periodi che un certo logos definirebbe di assenza e che per me erano di pienezza. Nessun certificato mi definiva come malato. Il certificato penale mi segnalava come anarchico. Squadre di bestie atroci setacciavano il patrimonio genetico per fare di mio figlio un determinato. La nuda vita scorreva tra le maglie irridendo.
Una delle cose che trovavo piu’ cretine, e che il mio amico Ivan aveva cosi’ bene spiegato, era l’idea che il lavoro potesse svanire. Un prodotto industriale sostituisce un prodotto ad alta intensità di lavoro, ma questo non vuol dire che il lavoro scompare dall’equazione. Non viene sostituito dalla bacchetta magica, ma dal lavoro ombra. Il lavoro ombra è un lavoro atomizzante e solitario, mentre il lavoro ad alta intensità richiede relazione e comunità. Identità. Al di là della critica al sistema industriale, a mio padre fece bene non trovarsi piu’ isolato nel mondo della fobia. Ritrovare un maschio forte dopo 32 anni e trovarlo in suo figlio. A mio padre fece bene sapere che al di là di ogni scala di valori, lui aveva generato un successo. Non mi pensavo come si pensa ad un successo. Cercavo di non pensarmi affatto. Era questo, di volta in volta, il successo. Ma mio padre riparti’ dopo una settimana con una postura eretta, mentre era arrivato curvo come un uncino. E anche questo, in fondo, lo si poteva considerare un successo.