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IO E TEODORO - GRAZIE, CARA

Conobbi Teodoro tanti anni fa, durante una festa a Torino. Me lo presentò Paolo, un amico con la barba bianca. La barba bianca di Paolo nascondeva probabilmente i tratti di un viso inquietante, ma questo non posso dirlo con certezza, poiché non lo vidi mai senza. Teodoro, invece, malgrado la barba che anche lui portava lunga e bianca, aveva tutto l’aspetto di un pazzo. Mi sorprese quindi scoprire come quell’uomo che sembrava uscito da una caverna, avesse un cervello analitico e funzionante e seppure non dotato dell’ironia propria di Paolo, fosse anche egli una persona molto intelligente, con un pensiero coerente, originale. Era, Teodoro, un uomo piuttosto caustico.
Molti anni più tardi, credo per caso, Teodoro capitò al villaggio in cui vivevo e si insediò in una delle grotte, come pareva gli fosse confacente. Scoprii subito quanto fosse abile, capace e amante del selvaggio. Aveva poca voglia di socializzare ma si rivelò sorprendentemente pronto a distruggere la tranquillità delle mie notti, che fino ad allora avevo passato in solitudine a scrivere e leggere in quella che era la casa comune - ossia il luogo dove, quando c’erano al villaggio altre persone che non fossimo io e mia moglie, mangiavamo assieme o leggevamo o discutevamo o smallavamo le mandorle. Teodoro, infatti, non partecipò mai a nessuna delle raccolte né alle altre attività comunitarie. Tuttavia, alle due, immancabilmente cominciò a frequentarmi e a parlarmi, a stuzzicarmi con le sue teorie. Non si ricordava affatto né di quella festa durante la quale ci conoscemmo, e nemmeno di Paolo, perché sembra che Teodoro si sia sempre lasciato portare in luoghi simili da gente che incontrava suo malgrado, e che poi faticava a seminare.
Questa gente, quella che lo rapiva e conduceva con sé, non era veramente interessata al suo pensiero, quanto piuttosto all’esoticità del personaggio. Tant’è che il pensiero di Teodoro veniva da queste persone banalizzato, non compreso. Un tale Antonio, per esempio, il quale millantava di esserci in confidenza e che era presente a quella festa torinese di tanti anni fa, diceva di Teodoro che egli considerava il "processo del potere" il vero cancro della società, e indicava questo passaggio-denuncia come fulcro del sistema teorico di Teodoro. Nulla di più scorretto. Lo capii facilmente e già allora, ascoltandolo parlare.
Durante le notti nelle quali mi assillava con i suoi pensieri, poi, ebbi modo di appurare come Teodoro fosse un uomo ragionevole e seppur eccessivamente convinto delle proprie idee, niente affatto ammalato di fanatismo.
Teodoro, semplicemente, nutriva un disprezzo sconfinato nei confronti della società che definiva tecnologico-industriale. Alla critica di questa società, io ero avvezzo, e il disprezzo di Teodoro, io lo condividevo. Quello che non condividevo era la sua smania di mandare tutto a rotoli. Ossia: ero persino d’accordo sulla necessità di abbattere quel sistema, ma al contrario di lui, io non credevo affatto che ne avessimo la possibilità. Avevo sempre sentito di doverci almeno provare, questo è vero, ma da quando era nato mio figlio, io avevo capito una cosa fondamentale che mi aveva cambiato profondamente.
Il giorno in cui mio figlio scivolò sul letto uscendo dal grembo di mia moglie, infatti, mi ero chinato su di lui e gli avevo leccato gli occhi per pulirglieli, e poi lo avevo fissato, da vicino. Il bambino, che aveva appena cominciato a fare i conti con la sua nuova residenza extrauterina, aveva disteso il volto contratto, e mi aveva “avvertito” come presenza, si era immediatamente rilassato. E dentro di me, li’ dove riuscivo a sentire la Voce del Mondo, quella stessa voce, simile al vento, era calata dal luogo ignoto in cui risiedeva, e mi aveva detto che quel bimbo non avrebbe lottato per vivere. Non avrebbe dovuto lottare, questo disse la Voce del Mondo.
Per l’uomo che ero stato fino a quel secondo, non fu una notizia piacevole. Io ero un guerriero, che della lotta fa una religione. Era cominciata, questa mia mania, da che avevo 10 anni e sul libro di storia della mia cugina più grande avevo letto di Napoleone, e più precisamente avevo letto ciò che Madame de Stael aveva scritto secoli prima dell’imperatore di Ajaccio. Era, Napoleone, un uomo che giocava a scacchi contro il mondo intero. Bene: io ero stato come Napoleone. Un uomo che gioca a scacchi contro il mondo intero. Convinto al pari di Teodoro che bisognasse fare “qualcosa” per cambiare le sorti dell’umanità. Ma dato che non trovavo nulla di veramente intelligente da fare, mi ero limitato a preservare la mia libertà entrando in guerra contro l’umanità, considerandola nemica nella sua totalità. Infatti nessuna delle teorie rivoluzionarie mi aveva mai persuaso, tanto meno quella di Teodoro. Mi pareva che Teodoro fosse convinto di dover colpire alcuni personaggi responsabili dell’avanzata di scienza e tecnica, avanzata che tendeva a far scomparire l’umano e ad assoggettare gli esseri ad un progetto unico, ad un pensiero unico e conformante che ci riduce a formiche. Era convinto, Teodoro, che si dovesse distruggere la società tecnico-industriale. Io potevo anche essere d’accordo con lui sul secondo punto, l’ho già detto, certo: sarebbe stato meglio se fosse crollata come un costone di montagna questa società, ma mi sembrava mancasse un nesso logico portante tra l’azione di ammazzare un professore o un dirigente d’azienda e il successivo crollo del sistema. Io vedevo il sistema in maniera molto differente da come lo vedeva Teodoro.
Tuttavia sentivo che qualcosa si doveva fare. E questo fino al giorno in cui nacque mio figlio. Nel mese successivo alla sua nascita rimasi così sospeso, tra la convinzione che condividevo con Teodoro, e la notizia appresa dalla Voce del Mondo e che riguardava mio figlio. E poi avevo capito.
Avevo capito che non ne valeva la pena.
Forse, Teodoro, non aveva mai letto Pessoa, e nemmeno Saramago che Pessoa cita nel suo “Fernando Reis”, li’ dove c’è scritto che saggio è colui che si accontenta dello spettacolo del mondo.
Ma anche io, seppure li avessi letti entrambi, Saramago e Pessoa, avevo faticato a comprendere questo passaggio fondamentale.
E fu proprio grazie a Teodoro, paradossalmente, che una notte lo capii, lo accettai.
Fu durante una notte di plenilunio, la seconda dalla nascita di mio figlio. Stavo nella casa comune, immerso nel silenzio del villaggio, una profondità inimmaginabile per chi vive tra i motori a scoppio e la corrente elettrica. Udii il vento fermarsi e i passi di Teodoro che dalla grotta scendeva alla casa. E di li’ a poco, mentre mia moglie e mio figlio dormivano nella stanza accanto, io e Teodoro parlammo della sua teoria del “processo del potere” e delle “attività sostitutive”.
Secondo Teodoro c’era una differenza profonda tra gli umani delle società primitive e gli odierni, e la differenza era nello sviluppo di quel che lui chiamava “processo del potere”. Con il concetto di processo del potere lui identificava un istinto o qualcosa di simile a un istinto che muoveva l’essere umano, e che doveva trovare una soddisfazione. Il processo del potere doveva avere una funzione nella lotta per la sopravvivenza e nello sviluppo dell’uomo. Teodoro sosteneva che era questa funzione-esigenza umana a rendere possibile la sopravvivenza. Ma anche il tormento. Lui diceva che un bimbo impara, un giovane caccia, un adulto costruisce e protegge, un vecchio consiglia, e alla fine l’uomo, completo e realizzato muore. Stesso dicasi per le donne. Ma quando le attività che scaturiscono dalle necessità si staccano da una base materiale prossima e diretta, quando la società industriale le allontana dal potere dell’uomo, quando pone queste attività in luoghi distanti, realizzabili solo attraverso strumenti non riproducibili dalla piccola comunità, l’uomo perde il senso del suo potere, e allora è come se ne rimanesse affamato. Quando, diceva, per realizzare il processo del potere l’uomo si affida ad attività sostitutive (non piu’ caccia o raccolta o agricoltura, ma supermercato e lavoro in ufficio, calcetto e collezionismo, per esempio) egli rimane insoluto, ed ha difficoltà ad abbandonare la fase infantile, e poi quella giovanile e poi quella adulta e non riesce ad accettare nemmeno la morte (alla quale giunge gonfio di botulino e viagra, e coi capelli tinti color mogano probabilmente dopo aver insidiato giovincelle che potrebbero essergli nipoti o anche peggio). Così continua a correre dietro a quella realizzazione, perdendo di autostima, e affamato di potere insegue quella carota imponendo il suo principio agli altri, realizzandosi in abnormi organizzazioni e progetti non spaziotemporalizzabili dalla sua povera mente di uomo, e finisce per opprimere se stesso e il mondo, finisce per cancellare l’umano e per distruggere.
Era evidente che avesse ragione, Teodoro.
Teodoro ce l’aveva in particolar modo con i ricercatori e i professori universitari, specie di sinistra. Lui diceva che era quella tutta gente con una fame di potere insaziabile, gente meschina che si muove solo per imporre agli altri, seppure lo faccia mascherando probabilmente anche ai propri occhi le attività svolte con la filantropia la passione o la curiosità. Diceva,Teodoro, che quella era gente che dietro la scusa di far del bene o del progresso, avrebbe piallato volentieri l’umano, appianato ogni differenza, ogni unicità in preda a una febbre che non sapeva nemmeno individuare. E che non erano quelle persone divenute cosi’ negli anni, ma che ci erano quasi nate, che s’erano piegate al sistema quasi e fin da subito. Diceva, Teodoro, che erano persone malate di ansia, fobiche, con una bassissima autostima. A me veniva in mente il vecchio Ivan quando viveva su, al rudere di Antonella, il quale, la prima volta che ci incontrammo, mi disse testualmente: "se qualcuno vuole aiutarti, scappa". Lo disse prima di scoppiare in una fragorosa risata e mettere su un caffè, ma questa è un'altra storia.
In quanto a quel che affermava Teodoro, io ragionavo e pensavo che forse era vero, ma che ne sapevo. Teodoro ne doveva sapere certo piu’ di me, visto che lui era stato professore in una grande università.
Io ricordavo con tenerezza amici e amiche del passato, e la storia mia e di questi amici, e non riuscivo ad accettare il suo punto di vista, la sua sentenza perché li riguardava. E riguardava in certa misura anche me.
Cosi’ Teodoro mi propose una scommessa. Mi chiese di provare a fare una cosa.
Avevo una amica dei tempi della scuola che adesso insegnava all’università una disciplina scientifica. Gliene avevo parlato qualche volta. Bene, mi disse Teodoro, prova a mandarle un messaggio con il cellulare.
Pronunciando la parola cellulare storse il grugno, quasi vomitò, ma la pronunciò, e la cosa mi fece sorridere. Glielo agitai sotto il naso, il cellulare, e seppure fosse, il mio, un vecchissimo samsung con lo schermo spaccato, un modello di 10 anni addietro, per lui era come un chip impiantato nel cervello. E forse aveva persino ragione.
Tuttavia, al netto del siparietto, mi chiese di domandare alla mia amica cosa ne pensasse dell’obbligo vaccinale, recentemente reintrodotto in Italia dopo 18 anni dal governo di centrosinistra (qualsiasi cosa voglia dire centrosinistra). Erano le 4 di notte a quel punto, e io composi il messaggio e lo inviai.
Fu solo alla mattina, ovviamente, che la mia vecchia amica mi rispose.
Rispose qualcosa come “tutti. Anche quelli non obbligatori prima che lo fossero e spero che trovino anche il vaccino contro l’alzheimer per quando loro saranno vecchi”. Loro erano i suoi due figli, che avevano al massimo una decina di anni.
Adesso, io non vedevo quella mia amica da circa 4 anni, e l’ultima volta ero rimasto un po’ spiazzato dallo scoprire come le sue capacità logiche fossero divenute (o sempre state?) farraginose, lacunose, difettose (in realtà quello era un cipiglio che stavo notando nell’intera popolazione umana, probabilmente la realizzazione della profezia di Steve Jobs il quale, 10 anni addietro, aveva promesso che avrebbe cambiato il mondo con l’ipod non specificando se l'avrebbe fatto in meglio o in peggio). Durante quell’incontro avevamo persino parlato di ciò che secondo lei era politica (Berlusconi), ed era entrata in un loop di pensiero che ne denunciava, come dire, la poca dinamicità intellettuale. Sebbene avesse manifestato delle inquietanti rigidità che non le attribuivo o non le avevo mai attribuito prima, me ne feci una ragione.
Invece, quando anni dopo mi rispose al messaggio in quella maniera scoordinata, non potei che replicare che non aveva capito la domanda, e che non avevo dubbi avesse fatto vaccinare i propri figli anche contro la pellagra, ansiosa (!) come era sempre stata (!!), ma che io volevo invece sapere qual era la sua posizione nei confronti dell’obbligo vaccinale, non cosa avesse fatto coi vaccini.
Lei mi rispose che non capiva la domanda.
Cosi’, tentando di darle una possibilità in piu’ rispetto a quelle che concede la società, notoriamente sviluppata su matrice binaria, le elencai tre possibili risposte anziché le classiche due: 1- concordi con l’introduzione dell’obbligo vaccinale. 2- non concordi 3- non te ne frega niente (bisogna capire, inoltre, se si vuole comunicare con loro, che questa gente è cresciuta con i test a risposta multipla).
Mi rispose un papello di sms dal quale mi protesse il mio vecchio samsung, che è uno strumento moderatamente intelligente e che non carica messaggi più lunghi di un tot. Nella parte che riusci’ a raggiungere il processore della mia carretta coi tasti invisa a Teodoro, c’era scritto che concordava, e poi snocciolava una serie di motivazioni non richieste che io sinceramente non lessi neanche nella parte che mi raggiunse (la volontà di obbligare gli altri non ha mai altra motivazione ultima che non sia la volontà di imporre il proprio punto di vista). Mi spiazzò anche il riferimento a un sognato vaccino anti alzheimer. Le attuali strade che conducono alla cura del morbo non passano per la vaccinazione, quanto piuttosto per interventi genetici. Adesso, mi chiesi, se l’alzheimer era un male di origine genetica, e se le malattie tutte avevano una base genetica, l’avevano anche altri difetti, come ad esempio la costituzione tarchiata, la propensione metabolica ad accumulare lipidi, la carenza nell’orecchio musicale, l’incapacità nel disegno, l'insensibilità non solo artistica (tutte caratteristiche proprie della mia amica). Mi chiedevo se, potendolo scegliere, lei avrebbe corretto il suo bagaglio genetico oltre che dalla disposizione a sviluppare alcune malattie, anche da quelle altre caratteristiche. Ecco, mi chiedevo: dove una caratteristica si comincia a considerarla un difetto? Insomma: quanto la gente si ama e quanto non si stima? In cosa si ama? In cosa non si stima?
Ci fu un periodo della mia vita, e venne presto, nel quale i miei amici cominciarono a farmi visita vestiti da studenti della disciplina che stavano studiando, parlando di cose di cui parlavano gli studenti di quella disciplina, e sembravano persino sereni mentre si trasformavano in formiche col loro posto nel formicaio. Disciplinati in una società disciplinare. Lo trovai grottesco, allora. Adesso, a ripensarci, mi pareva un fatto invece inquietante. Più di quanto avrebbe mai potuto esserlo il viso di Paolo senza la barba.
Teodoro aveva vinto la scommessa, a quel punto. La mia amica era una feroce impositrice ammalata di bassa autostima con processi del potere irrisolti e cercava di realizzare se stessa a dispetto dalla sua natura. Ed io ero un patetico romantico innamorato del ricordo dell’adolescenza che ogni evento maschera nella memoria.
In effetti fu come accendere la luce. Tutto, tutta la nostra storia comune, mia e della mia amica, cambiò di prospettiva e tutti i suoi atti e i gesti che io ricordavo (io ho una buona memoria) cambiarono di senso.
Era vero: ogni nostra relazione era stata viziata da un rapporto di potere per il potere, null’altro che questo. Un potere mai soddisfatto, mai realizzato dal compimento di un processo. Il gioco di negarsi per attrarsi, il gioco di attrarsi per dominare. Il gioco di dominare per nutrirsi.
E allora seppi rispondere anche ad un’altra domanda, non di Teodoro, ma una domanda che mi facevo da sempre. Se è vero che il vizio nasce presto, quand’è che nasce?
Ragionai dei primi incontri con altri bambini. Tornai con la mente alla prima socializzazione extrafamiliare che riuscissi a ricordare. Mi stupii del fatto che non avessi in memoria la delusione per una aggressione di un altro bimbo che mi ruba il giocattolo. Ecco: piansi quando un altro bambino mi portò via il primo gioco? Non lo so, non lo ricordo. Tuttavia ricordavo benissimo il pianto per il successivo rimprovero dei miei genitori, quelli che pretendevano che io dovessi reagire all’appropriazione indebita.
E allora forse la storia del processo del potere doveva le sue soluzioni conflittuali e frustranti a qualcosa che risiedeva nella cultura di appartenenza, al sistema. E Teodoro aveva ragione.
Per lo stesso motivo per il quale adesso consideravo la mia storia con occhio sereno, mi fu facile dare ragione a Teodoro. La disillusione, libera.
In quanto ai miei vecchi amici prigionieri del mondo? Beh, conclusi che stavano crescendo figli che sarebbero stati morbillo free, ma per sempre insoddisfatti, ansiosi, fobici e infelici. Avrebbero continuato a mordere l’aria, generazione dopo generazione (e questo pensiero mi suonò un po’ come una maledizione pronunciata).
Mio figlio non avrebbe mai lottato per vivere a dispetto della vita. Mio figlio l’avrebbe accettata, la vita. Questa era la promessa-rivelazione della Voce del Mondo a suo riguardo. Adesso potevo gioirne perché ero pronto ad accettare che “saggio è colui che si accontenta dello spettacolo del mondo”, e sapevo ormai che è nella saggezza la piena felicità. Seppure non la longevità.
Dissi addio alla mia amica con un ultimo messaggio.
C’era scritto, grazie cara.
Tuttavia, nella volontà di Teodoro d’abbattere il sistema facendo esplodere professori e dirigenti, continuavo a vedere una farraginosità altrettanto complicata, quanto quella denunciata dalla mia amica. Si puo’ sparare alla stupidità? Con quale pistola? Ecco, al limite si sarebbero dovuto uccidere tutti gli stupidi… ma anche cosi’: se il processo del potere si realizza con il moto di fare legna, se quell’istinto teorizzato da Teodoro muove l’uomo e si trasforma in placido calore di focolare dove l’uomo puo’ ascoltare sereno le storie di una voce narrante al riparo dall’inverno, e se premere un pulsante su una caldaia non restituisce la stessa pienezza, se la televisione o persino un libro non restituiscono la stessa narrazione , la stessa unità, la stessa condivisione, la stessa compagnia… cosa comporta tentare di sparare alla stupidità? Perché, sarà anche vero: un istinto di potere che non si traduca nella quiete placida di un fuoco, rimane come un radicale libero a tormentare l’insoluto essere umano, spingendolo a imporre se stesso ottusamente agli altri esseri lì dove non è ciò che vuole quanto piuttosto ciò che gli resta... ma se l’azione mossa da necessità non si traduce in uno stato di serenità e continua a scattare afferrando aria anziché l’oggetto che cercava, in cosa sarebbe diverso il tentativo, l’atto di cercare di colpire con un proiettile l’eterea stupidità? E l'ottusità della mia amica? Avrebbe potuto giustificare un intervento medico obbligatorio? In fondo quale origine aveva il pericolo nucleare se non quella precisa e ottenebrante ottusità?


(…continua…)



NB
A beneficio di eventuali lettori affetti da malattia professionale (spie, delatori, sbirri, ricercatori, sociologi, giornalisti, investigatori, criminologi etc): Teodoro è un personaggio di fantasia liberamente ispirato a Ted Kaczynski, attualmente carcerato negli USA  e pertanto non residente in una grotta sui monti Iblei. Inoltre, da quel che ne so, il K. non è mai stato in Italia ad una qualche festa a Torino. Infine io non sono mai stato negli USA  e non l’ho mai conosciuto. Prendere in considerazione questo scritto per qualcosa di differente da quel che è, ossia un post ammiccante al genere letterario, equivale a considerare possibile l’ipotesi che Collodi conoscesse un falegname capace di costruire un burattino vivente, o ignorare il fatto che Salgari, a dispetto dei suoi pirati, non sia mai uscito dall’Italia né abbia mai predato sui mari a bordo di una nave corsara.
A beneficio di Antonio Troiano: prima di scrivere una prefazione a qualcosa... leggere la prefazione a Viaggio in Portogallo, di Saramago.