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Secondo mia moglie, il progresso sociale, misurato sulla scala dei diritti cosi’ come lo andavamo costruendo, non era poi molto invitante. Vietare o acconsentire, non edificavano strutture poi tanto differenti. Per esempio, lei, detestava il femminismo, lo considerava una mera idiozia alla quale partecipano, mettendosi in coda, milioni di esseri arrabbiati. Al vaglio dei risultati attuali, diceva mia moglie, l’emancipazione femminile coincideva col diritto acquisito dalle donne di alienarsi al pari degli uomini e di potere abortire in maniera legale. Ossia tutta la lotta delle donne per le donne, si era tradotta nella possibilità che adesso esse avevano di realizzarsi secondo i dettami della società, identicamente a prima nella sostanza, anche se non nel particolare: lavorare per soldi e per il sistema, vestirsi come si voleva (li’ dove la volontà discende su di noi dall’alto etereo della moda), non essere necessariamente madri e poter abortire in ospedale. Per considerare tutto ciò un progresso, si doveva credere che la libertà fosse un universale, anche quando il frutto della lotta condotta decenni addietro per la libertà, ad oggi ti opprime e deprime: si doveva insomma essere ottusi. Quello che sosteneva mia moglie, era che emanciparsi per emanciparsi, si doveva farlo dalla società e non dalla propria natura. Era come, secondo lei, se un lupo selvaggio si fosse tenacemente battuto per diventare un cane castrato alla catena. Non contrapponeva, mia moglie, la società dell’ottocento italiano a quella degli anni duemila. Mia moglie contrapponeva la natura dell’essere al giogo via via differente che la cultura di appartenenza ci costringe ad indossare. Persino il viaggio, lei diceva, ed io ero d’accordo, era uno specchietto per le allodole. Entrambi, sia io che lei, avevamo perso il senso che ci convinse in passato a prendere un aereo per ritrovarci in un contesto esotico sconosciuto come se fossimo entrati in un cinema all’improvviso a vedere un film di cui, probabilmente, tra dieci giorni non ricorderai nemmeno il titolo. Mia moglie voleva una vita, un miracolo inarrestabile, una straordinarietà possibile per chiunque abbia il coraggio di esistere secondo se stesso (e se proprio lotta doveva esserci, che fosse indirizzata nel rintracciare quel “se stesso” sommerso da strati e strati di spazzatura). Adesso: essere obbligati da catena e fucile è un conto, ma farsi fottere dalla propaganda, davvero non poteva accadere, era troppo da fessi.
Ho conosciuto poche persone straordinarie, e forse non è questo né il continente né il tempo dello straordinario. Non considero frutto del caso il fatto di aver concepito un figlio con mia moglie. Io e lei siamo frutto di necessità, ossia un miracolo.